Ho incontrato Walter per la prima volta all’ingresso di un cimitero: un geco bellissimo, gli occhi ricci, contro un’ala del cancello che lui manovrava come un monopattino.
Un piede nella fessura del ferro e l’altro che – scalciando contro il terreno – inquietava l’ala che si chiudeva e si apriva, si chiudeva e si apriva, mostrando come un sipario a poco a poco le ombre dei vivi, i fiori guasti, le fosse. E poi li nascondeva di nuovo. E in questo gioco apparentemente infantile, una cornice d’aria gli inanellava e scompigliava i capelli. E gli abiti si gonfiavano come un mantello.
Era l’angelo: l’angelo del cancello.
Sembrava un movimento infinito. Poi ha scelto. E il cancello è rimasto aperto. Per sempre. Nella sua mente. E la vita e la morte colano e si intrecciano aldiquà e aldilà del cancello. E la vita dissotterra l’orrore seppellito della morte e la rende accettabile come tutto quello al quale abbiamo tolto il mistero del silenzio e dell’occulto, dell’invisibile e delle tenebre.
Io non amo le citazioni, ho la proprietà di raccontare, ma farei torto a Paulo Coehlo se mi impadronissi di un suo pensiero: “[…] chi è convinto di non poter agire in maniera diversa, sarà distrutto dalla routine. Che siano maledetti coloro che non danzano e impediscono agli altri di farlo”.
Walter è innocente. Nessuno lo accusa e lui è innocente. Come lo è il fanciulletto che per curiosità strappa le braccine a una formica o cava gli occhi ad un merlo.
Innocente perché non ha ancora su di sé lo strazio, lo spasimo e la disperazione del dolore fisico e morale.
E Walter, come tutti gli innocenti, sembra anche folle. Folle e beffardo. Burlone, cinico e sfarzoso. E tutto questo appare agli altri come il suo stile, il suo modo. Forse, chissà, la sua natura.
E lo abbandona la soggezione della parola che si arrotonda in una euritmia quasi sensuale. E i luoghi comuni si ravvivano, prendono forma.
È la torta in faccia, invece che a fettine bene educate sul piatto con l’orlo d’oro. Il coraggio di amare un piede.
Allora quello che è sciamannato viene innalzato fino al pulpito dal quale l’autore si diverte a lanciare bucce di verità.
E se cerchi di essere rassicurato dalla lettura, sarai invece provocato.
Supponi di essere lui, e ti sentirai libero.
venerdì 5 marzo 2010
ESTRAZIONI
Estrasse il dente sano, anziché quello malato.
Estrassi la pistola, anziché il portafoglio.
Estrassi la pistola, anziché il portafoglio.
TERRONE A CHI?
Mi chiamò in tutti i modi: stronzo, coglione, idiota, imbecille, fetente, meschino, cretino, deficiente, stupido, ebete, carogna, vigliacco, scimunito…
Fu quando mi disse terrone che smise di respirare.
Fu quando mi disse terrone che smise di respirare.
DICEVA CHE ERA ROSSO
Ve lo giuro che c’era ancora l’arancione quando attraversai l’incrocio.
Il vigile, invece, si ostinava a dire che era rosso.
Rosso.
Rosso.
Mi strillava nelle orecchie.
Rosso.
Rosso.
Come il sangue che gli uscì dalla testa.
Il vigile, invece, si ostinava a dire che era rosso.
Rosso.
Rosso.
Mi strillava nelle orecchie.
Rosso.
Rosso.
Come il sangue che gli uscì dalla testa.
LE BR AD ACQUA
Aspettammo che finisse il comizio elettorale per sparargli.
Davvero pensava di continuare ad infinocchiarci con la favola sullo sviluppo del Mezzogiorno?
Oramai non ci crediamo più manco noi bambini.
Così sparammo, sparammo, e se ne andò a casa tutto inzuppato.
E tutti ad applaudirci.
Davvero pensava di continuare ad infinocchiarci con la favola sullo sviluppo del Mezzogiorno?
Oramai non ci crediamo più manco noi bambini.
Così sparammo, sparammo, e se ne andò a casa tutto inzuppato.
E tutti ad applaudirci.
ME LE FECE MIA MOGLIE QUELLE SPLENDIDE CORNA
Le sfondai la pancia a cornate. Manco fossi stato un toro nella Spagna autarchica franchista.
E quelle corna me le aveva fatte lei.
Ricurve e appuntite.
(E se pensate che mia moglie era una zoccola, vi sbagliate: era solo una bravissima cartapestaia).
E quelle corna me le aveva fatte lei.
Ricurve e appuntite.
(E se pensate che mia moglie era una zoccola, vi sbagliate: era solo una bravissima cartapestaia).
TERZA SETTIMANA
Come milioni di famiglie oggi in Italia, anche lui faceva fatica a superare la terza settimana.
Questo mese manco quella.
L’ho ammazzato prima.
Questo mese manco quella.
L’ho ammazzato prima.
CARLA MACINATA
L’ho fatta a pezzi.
A pezzettini.
Macinata.
Ne ho fatto salsiccia.
Rotoli di salsiccia insaporita con spezie.
Buona! – dicono i miei ospiti a cena.
E Carla? – mi chiedono.
Io non rispondo.
E continuiamo a mangiarcela
A pezzettini.
Macinata.
Ne ho fatto salsiccia.
Rotoli di salsiccia insaporita con spezie.
Buona! – dicono i miei ospiti a cena.
E Carla? – mi chiedono.
Io non rispondo.
E continuiamo a mangiarcela
POSTFAZIONE di Augusto Cavalera
“L'ovvio è quel che non si vede mai, finchè qualcuno non lo esprime con la massima semplicità” sentenziava il grande poeta-artista-filosofo libanese Kahlil Gibran e che Walter Spennato nel suo lavoro ha elevato all’ennesima potenza.
Del resto, non è la morte l’ovvia conseguenza della vita, nel suo senso altamente solenne e retorico?
Walter, nelle sue esilaranti mini-storie, ha celebrato la morte come complice di una ridicola farsa, una macchietta in stile pulp da “non ci posso credere!”, quell’atteggiamento narrativo che lascia basiti per gli epiloghi assurdi e verosimili, per il linguaggio acetato e condito, come un pinzimonio che si lascia assaggiare ma che non sazia del tutto.
I protagonisti delle varie scene lo diventano solo da vittime. Soggetti così insulsi e amebici che il “lasciarsi uccidere” sarà l’unico gesto veramente utile che possono fare in vita. Sì, “lasciarsi uccidere”, in quanto sono loro stessi i veri artefici dell’assassinio; con quell’atteggiamento lascivo, irriverente ed indisponente inducono il “povero” omicida a compiere quel gesto ultimo, che li rende finalmente importanti, degni di una storia da raccontare, seppur minuta.
La raccolta è un meltin’pot di micro-situazioni che possibilitano, ossia che tendono al possibile, una derivata che non conosce limiti, ragionamenti evanescenti ma così intrecciati e contorti da formare dei tessuti concettuali solidi, ineccepibili, ovvi, appunto.
Si consiglia di leggerli in un’unica soluzione, come farmaco liberatorio e purificante, per favorire la massima essenza che si sprigiona da ogni situazione, come terapia al quotidiano, a ciò che “non si può fare” ma che tramite “alias” si può cooptare, delegando e nascondendosi poi dietro un alibi inattaccabile.
In almeno un caso ci vediamo attori protagonisti, immedesimati nella mano del boia, di colui che per una volta mette fine a frustrazioni logoranti e permissivismi iperbolici, compiendo dei piccoli omicidi del cazzo, solo per il gusto di osare, di essere. Un giustizialismo probabilmente ingiusto ma meritorio, che premia chi non merita di vivere degnamente.
Una scrittura loquace ma al contempo laconica e pungente, che si rincorre e si sovrappone, che crea dei corto circuiti nel rapporto causa-effetto, un sintetizzatore di immagini-scritte che riverberano immagini-visive in ritmica sequenza, coadiuvate dall’abilità grafica di Laurina Paperina.
Un genere innovativo e sperimentale, un macchiaiolismo che soverchia i canoni letterari ortodossi, scevri di schemi pre-definiti e ruffiani. Questa schiettezza discorsiva stupisce per la sua disarmante innocenza, come il posare la pietra dopo aver commesso il peccato.
Del resto, non è la morte l’ovvia conseguenza della vita, nel suo senso altamente solenne e retorico?
Walter, nelle sue esilaranti mini-storie, ha celebrato la morte come complice di una ridicola farsa, una macchietta in stile pulp da “non ci posso credere!”, quell’atteggiamento narrativo che lascia basiti per gli epiloghi assurdi e verosimili, per il linguaggio acetato e condito, come un pinzimonio che si lascia assaggiare ma che non sazia del tutto.
I protagonisti delle varie scene lo diventano solo da vittime. Soggetti così insulsi e amebici che il “lasciarsi uccidere” sarà l’unico gesto veramente utile che possono fare in vita. Sì, “lasciarsi uccidere”, in quanto sono loro stessi i veri artefici dell’assassinio; con quell’atteggiamento lascivo, irriverente ed indisponente inducono il “povero” omicida a compiere quel gesto ultimo, che li rende finalmente importanti, degni di una storia da raccontare, seppur minuta.
La raccolta è un meltin’pot di micro-situazioni che possibilitano, ossia che tendono al possibile, una derivata che non conosce limiti, ragionamenti evanescenti ma così intrecciati e contorti da formare dei tessuti concettuali solidi, ineccepibili, ovvi, appunto.
Si consiglia di leggerli in un’unica soluzione, come farmaco liberatorio e purificante, per favorire la massima essenza che si sprigiona da ogni situazione, come terapia al quotidiano, a ciò che “non si può fare” ma che tramite “alias” si può cooptare, delegando e nascondendosi poi dietro un alibi inattaccabile.
In almeno un caso ci vediamo attori protagonisti, immedesimati nella mano del boia, di colui che per una volta mette fine a frustrazioni logoranti e permissivismi iperbolici, compiendo dei piccoli omicidi del cazzo, solo per il gusto di osare, di essere. Un giustizialismo probabilmente ingiusto ma meritorio, che premia chi non merita di vivere degnamente.
Una scrittura loquace ma al contempo laconica e pungente, che si rincorre e si sovrappone, che crea dei corto circuiti nel rapporto causa-effetto, un sintetizzatore di immagini-scritte che riverberano immagini-visive in ritmica sequenza, coadiuvate dall’abilità grafica di Laurina Paperina.
Un genere innovativo e sperimentale, un macchiaiolismo che soverchia i canoni letterari ortodossi, scevri di schemi pre-definiti e ruffiani. Questa schiettezza discorsiva stupisce per la sua disarmante innocenza, come il posare la pietra dopo aver commesso il peccato.
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