venerdì 5 marzo 2010

PREFAZIONE di Anna Mazzamauro

Ho incontrato Walter per la prima volta all’ingresso di un cimitero: un geco bellissimo, gli occhi ricci, contro un’ala del cancello che lui manovrava come un monopattino.
Un piede nella fessura del ferro e l’altro che – scalciando contro il terreno – inquietava l’ala che si chiudeva e si apriva, si chiudeva e si apriva, mostrando come un sipario a poco a poco le ombre dei vivi, i fiori guasti, le fosse. E poi li nascondeva di nuovo. E in questo gioco apparentemente infantile, una cornice d’aria gli inanellava e scompigliava i capelli. E gli abiti si gonfiavano come un mantello.
Era l’angelo: l’angelo del cancello.
Sembrava un movimento infinito. Poi ha scelto. E il cancello è rimasto aperto. Per sempre. Nella sua mente. E la vita e la morte colano e si intrecciano aldiquà e aldilà del cancello. E la vita dissotterra l’orrore seppellito della morte e la rende accettabile come tutto quello al quale abbiamo tolto il mistero del silenzio e dell’occulto, dell’invisibile e delle tenebre.
Io non amo le citazioni, ho la proprietà di raccontare, ma farei torto a Paulo Coehlo se mi impadronissi di un suo pensiero: “[…] chi è convinto di non poter agire in maniera diversa, sarà distrutto dalla routine. Che siano maledetti coloro che non danzano e impediscono agli altri di farlo”.
Walter è innocente. Nessuno lo accusa e lui è innocente. Come lo è il fanciulletto che per curiosità strappa le braccine a una formica o cava gli occhi ad un merlo.
Innocente perché non ha ancora su di sé lo strazio, lo spasimo e la disperazione del dolore fisico e morale.
E Walter, come tutti gli innocenti, sembra anche folle. Folle e beffardo. Burlone, cinico e sfarzoso. E tutto questo appare agli altri come il suo stile, il suo modo. Forse, chissà, la sua natura.
E lo abbandona la soggezione della parola che si arrotonda in una euritmia quasi sensuale. E i luoghi comuni si ravvivano, prendono forma.
È la torta in faccia, invece che a fettine bene educate sul piatto con l’orlo d’oro. Il coraggio di amare un piede.
Allora quello che è sciamannato viene innalzato fino al pulpito dal quale l’autore si diverte a lanciare bucce di verità.
E se cerchi di essere rassicurato dalla lettura, sarai invece provocato.
Supponi di essere lui, e ti sentirai libero.

ESTRAZIONI

Estrasse il dente sano, anziché quello malato.
Estrassi la pistola, anziché il portafoglio.

BELLA DENTRO

L’ho uccisa perché era racchia.
E non me ne frega un cazzo se era bella dentro.

TERRONE A CHI?

Mi chiamò in tutti i modi: stronzo, coglione, idiota, imbecille, fetente, meschino, cretino, deficiente, stupido, ebete, carogna, vigliacco, scimunito…
Fu quando mi disse terrone che smise di respirare.

DICEVA CHE ERA ROSSO

Ve lo giuro che c’era ancora l’arancione quando attraversai l’incrocio.
Il vigile, invece, si ostinava a dire che era rosso.
Rosso.
Rosso.
Mi strillava nelle orecchie.
Rosso.
Rosso.
Come il sangue che gli uscì dalla testa.

METEOROPAZIA

La uccisi perché pioveva.
Cazzo di meteoropatico che non sono altro

N-O-I-A

La uccisi per NOIA.
E per NOI.
E perché NO.
E per N motivi.

LE BR AD ACQUA

Aspettammo che finisse il comizio elettorale per sparargli.
Davvero pensava di continuare ad infinocchiarci con la favola sullo sviluppo del Mezzogiorno?
Oramai non ci crediamo più manco noi bambini.
Così sparammo, sparammo, e se ne andò a casa tutto inzuppato.
E tutti ad applaudirci.

PRECARIATO A VITA

Ha smesso di essere precaria.
Ora che l’ho uccisa, è morta a tempo indeterminato.

ME LE FECE MIA MOGLIE QUELLE SPLENDIDE CORNA

Le sfondai la pancia a cornate. Manco fossi stato un toro nella Spagna autarchica franchista.
E quelle corna me le aveva fatte lei.
Ricurve e appuntite.
(E se pensate che mia moglie era una zoccola, vi sbagliate: era solo una bravissima cartapestaia).